Era il mese di novembre quando prendemmo un aereo per scappare a Londra.
A casa lasciavamo un bambino mai nato dopo giorni di attese e pianti e false speranze. Ma tanto tutti dicevano che era una cosa normale, che tanto succedeva, che non era una tragedia, però noi l’avevamo cercato e da tempo volevamo mettere al mondo la nostra creatura. Avevo trent’anni e mi sentivo pronta per diventare mamma perché avevo un marito che mi amava, un lavoro redditizio e sicuro, una casa. Da tempo guardavo rapita tutte le pance che incontravo, sognando la mia, senza paura di trasformazioni anche se in quel periodo ero veramente magra. Ero convinta di poter programmare ogni cosa se solo lo avessi voluto e questo scherzo della natura è stato uno schiaffo alla mia presunzione. Mi ha costretta a cambiare direzione e a smetterla di ossessionare mio marito con quel desiderio.
E in una notte d’inverno mi svegliai in un lago di sangue e allora corremmo all’ospedale facendo finta di credere che la gravidanza potesse proseguire. Il ricovero durò cinque giorni tra esami, scioperi del personale e attese. Ho bene impressa nella mente quell’infermiera che con tono seccato, mi disse di spostarmi da dietro la porta mentre soffocavo le lacrime dopo l’ultimo responso.

Durante la degenza, una sera in ospedale, mio marito arrivò oltre l’orario e mi fece una delle sue sorprese regalandomi un piccolo cellulare bianco che mi avrebbe distratto da tutto il nero che mi stava divorando.
E poi mi ha portata via, per quattro giorni a Londra dove mi ha fatto sognare come una bambina nel paese dei balocchi, dentro e fuori da qualsiasi negozio e mercatino, ad attraversare gli odori di hamburger, baracchini e coprire le guance per il vento freddo, gelido.
Ecco, quando guardo questa foto io penso a tutto questo e ti ringrazio, amore mio.