Sabato mattina ero pronta per accompagnare Ginetta e Pino a Volterra al laboratorio teatrale “Logos” dell’ Archivio Zeta.
Sono arrivati con un anticipo di mezz’ora ma, la mia solita ansia di ritardare, ha fatto coincidere tutto. Ho raccolto le mie due borse: quella patchwork del Messico e quella grezza di juta, ognuna ben organizzata la sera prima, ho salutato la mia piccola tribù e sono salita in macchina. Nel posto dietro un sedile era reclinato per far posto alle varie scenografie tra valigie, ceste in vimini, la lavanda raccolta ieri, conchiglie e caramelle.
Io mi sentivo strana tra la voglia di vivere questa nuova esperienza e la tristezza di non condividerla con il resto della famiglia ma poi l’istinto di sopravvivenza ha avuto la meglio. Eravamo in perfetto orario sulla tabella di marcia ma, dopo pochi chilometri, Gin ha visto un campo di fiori viola e si è voluta fermare a raccoglierne qualcuno. E se da lontano erano incantevoli nella loro macchia di colore, da vicino erano strani, molto meno aggraziati anche se in realtà proprio quei loro bitorzoli li rendevano ancora più suggestivi.

0

Durante il viaggio Gin aiutava Pino a ripassare il suo copione associandolo ai gesti delle mani mentre io osservavo da dietro quel loro linguaggio speciale, ripetitivo e faticoso.

Poi ci siamo messe a chiacchierare in un sottofondo costante e chissà Pino che cosa avrà pensato.

Durante il tragitto, ormai vicini alla destinazione, abbiamo visto una scultura in mezzo al verde: un grande anello rosso che faceva da cornice a quel paesaggio mozzafiato. Gin ha voluto saperne che cosa ne pensassi ed io ho sentenziato che non mi piaceva, che mi sembrava rovinasse la vista, ma lei mi ha fatto riflettere dicendo che prima avrei dovuto cercare di capire che cosa fosse, scendere dalla macchina, osservare, scoprire e poi forse avrei cambiato idea.

cerchio

In effetti cercando informazioni su quel cerchio di metallo, ho scoperto molte cose, la prima è che bisogna guardare, contemplare e non semplicemente vedere. L’autore, Mauro Staccioli è uno scultore del posto.

Arrivati a Volterra abbiamo pranzato in una deliziosa osteria tipica “La Pace” dove ho gustato una fantastica ribollita e la fettunta, calcolando con orrore la quantità di calorie. Pino aveva un piatto enorme di ravioli al ragù, ma anche se fossero stati pessimi per lui, sarebbe stato uguale perché non sente i sapori. Che cosa tremenda dev’essere non poter gustare un piatto simile e nemmeno sentirne l’odore…
Gin che conosceva i ristoratori, ha regalato loro un mazzo di lavanda e più tardi il gestore è venuto a fare due chiacchiere con quella parlata toscana che mi fa impazzire.

Il gentile omaggio gli aveva procurato allergia e lo si sentiva da come tirava su col naso! Poi a un certo punto siamo rimasti soli e alzando le braccia ha esclamato: “Sono qui da una vita”. E dentro a quel gesto ho letto una grande fatica, una specie di rassegnazione all’abitudine, quella che da sempre rifuggo. Mi sono sentita fortunata, molto. Ma poi chissà magari era la mia solita immaginazione che galoppava o semplicemente l’effetto del bicchiere di vino rosso…

Via Don Minzoni Volterra
Via Don Minzoni Volterra

Dopo pranzo siamo passati da una specie di cortile, adiacente al Teatro di San Pietro e siamo entrati in un grande ufficio dai soffitti alti. Ai muri c’erano cartelloni, locandine di spettacoli e negli scaffali alle pareti tantissimi raccoglitori, libri, documenti. Ma chissà di chi parlavano, chi e cosa veniva catalogato, diviso, conservato. Poi c’era una grande scrivania a elle con vari monitor e un paio di case a terra e ho pensato che un cliente così mio marito l’avrebbe gestito benissimo. Ho osservato le marche dei monitor di media qualità, ho guardato le foto vedendo facce sconosciute. Poco dopo ci hanno raggiunto delle persone che Gin mi ha presentato anche se la sensazione più piacevole in quel posto era di non dover essere nessuno. Una persona senza età, senza lavoro, senza ruoli, semplicemente un’amica di Gin, vestita colorata e con tanta curiosità.
Man mano arrivava gente tra cui una donna dalla figura imponente che impugnava un passeggino sul quale sedeva una bimbetta dalle cosce nude che stringeva il suo ciuccio. E ogni volta che vedo un bimbo piccino allora mi assale la malinconia di quel tempo in cui non vedevo l’ora che crescessero e che ora rimpiango. Nel cortile c’era una grande gabbia ben curata, abitata da un coniglio bianco di nome Jan Jan ma che la bimba diceva si chiamasse Pina! Ed ogni cosa era preziosa in quella giornata perché la osservavo con grande curiosità. Poi Gin ha sparpagliato nell’ufficio tutti i suoi capolavori che travolgevano insieme alle sue parole che spiegavano, chiedevano, raccontavano. E c’erano oggetti che lei ha costruito con le sue mani e la sua poesia tra pendagli di bastoni e conchiglie che sprigionavano musica di mare, libretti di legno, di foglie, disegni. Qualcuno la ascoltava ed io cercavo di capire chi fosse realmente interessato perché spesso i gesti dicono più delle parole.
Ed è arrivato l’orario del laboratorio, insieme ai vari partecipanti di ogni età. Dall’ufficio ci siamo spostati nel teatro adiacente, rigorosamente nero, con il palcoscenico in legno. Seduti in cerchio ognuno recitava la sua parte con il proprio stile. Quelle frasi lette frettolosamente, spiegate dalla donna dai capelli rossi, si riempivano, prendevano forma e colore nelle corde di ciascuno. Io ascoltavo, prima intimidita poi partecipe a tal punto che avrei voluto anch’io interpretare una parte.

YOKNAPATAWPHA

Sentivo le frasi che rimbalzavano nel petto e m’immaginavo con quale tono le avrei accordate. Invece no, me ne sono stata zitta ad ascoltare e a prendere ogni piccola informazione e spunto per la mia sete. Ed era bello essere in quel cerchio perché avrei potuto interpretare qualsiasi lettura senza essere giudicata o perlomeno senza sentirmi ridicola. Poi ogni tanto scappava una risata, una riflessione, una battuta. E Pino interpretava il fiume con quel suo modo di parlare che innalza attenzione e stupore. Gin sempre vicina senza ombra di pietismo.

E alla fine siamo tornate nel piccolo cortile per raccontare una storia ai bambini presenti. Io ho indossato il cappello colorato e la giacchetta striminzita per dare inizio al piccolo spettacolo. I piccoli, seduti intorno a Gin che maneggiava lavanda, la ascoltavano con attenzione mentre io cercavo d’esserci ma senza esserci. Intanto i teatranti uscivano ed io gli offrivo “caramelle americane” e solo chi avesse ascoltato la storia ne avrebbe capito il senso. Poi durante la narrazione, ho cantato una canzone provando una gioia smisurata. E l’atmosfera era irreale nel cortile di quel teatro a Volterra.

Gin continuava a parlare e a intrecciare fusi di lavanda con grande generosità fino a quando tutti se ne sono andati e siamo tornati in ufficio per una chiacchierata con le ultime rimaste.


E pian piano abbiamo raccolto tutti i pezzi tra borse, ceste e tutto il resto mentre Pino fumava appoggiato alla macchina ma, prima di tornare a casa, Gin mi ha voluto far vedere la piazza mentre spaesate raccoglievamo tutto quello che potevamo anche se stanche dalla giornata. Abbiamo guardato monili, alabastro e scarpe annusando l’aria. Infine siamo tornate in macchina dove Pino mi ha ceduto il posto davanti per lasciarci chiacchierare allo sfinimento.

Questo viaggio alla “città ideale” e la vista di quel cerchio mi sono parsi segni di una lunga strada che sto faticosamente cercando ma questa volta non più sola…