Sabato sera dopo il lavoro sono rimasta direttamente in centro per andare al cinema Odeon a vedere “Dante” di Pupi Avati.
Mi aspettavo di colmare almeno una piccola parte del mio “vuoto” rispetto alle sue opere, considerando la mia totale ignoranza sulla Divina Commedia e sulle mie lacune culturali che vivo come un’urgenza.

Il racconto cinematografico segue due storie parallele, percorrendo alcuni episodi salienti della vita di Dante verso il cammino di fuga che deve compiere in esilio da Firenze e contemporaneamente il viaggio di Boccaccio, suo illuminato, verso la conoscenza di Dante attraverso le testimonianze di chi l’aveva conosciuto; come fine ultimo, l’incontro di Boccaccio con la figlia di Dante, Beatrice monaca a Ravenna, per risarcirla simbolicamente con dieci fiorini del perdono mai concesso al padre di una città intera.

Man mano che si susseguivano le scene attendevo impaziente spiegazioni chiarificatrici sulle sue opere, mentre le storie dei due uomini s’incrociavano da una vicenda all’altra. Le sensazioni più forti erano il buio e la crudezza di avvenimenti terribili come la morte della mamma di Dante bambino, la ricerca di Boccaccio del padre morto in un cimitero sotterraneo, le piaghe della scabbia e della peste, così come l’eterea Beatrice unita in matrimonio ad un losco figuro peloso e mangiatrice ingorda del suo cuore in sogno, per non parlare della bambola obbrobriosa donatale per le nozze come buon auspicio. A queste, scorrevano nell’intreccio, frammenti di poesia che sottolineavano la capacità cinematografica di rappresentare momenti sublimi, come lo sguardo magnetico di Beatrice, la gioia di Dante nel vederla prima da bimbo poi da adulto fino alla sua morte e la scena del quadro vivente che mi ha lasciato a bocca aperta. Pur non conoscendo nulla delle opere di Dante, stavo scoprendo la sua umanità, quella che probabilmente in passato mi avrebbe fatta appassionare alla sua storia sui banchi di scuola, invece della storia fatta di date, luoghi e nozioni da imparare a memoria. Anche lui, mito irraggiungibile, era un uomo pieno d’insicurezze, di fragilità e incoerenze e nonostante la vita fosse stata ben poco generosa con lui, la sua sensibilità si allargava.

Per tutto il film sentivo dentro qualcosa di arrogante che mi diceva di approfondire una simile occasione di bellezza, riaffiorava quel senso d’inadeguatezza che ritorna puntuale a ricordarmi quanto non so. Invece di crescere con i libri, a sedici anni lavoravo già come commessa, dando a mio padre un profondo dolore che sento ancora addosso e a me un tempo che sento irrecuperabile.

Ho scoperto un uomo che pur vivendo le pene dell’inferno non ha mai smesso di sognare, che conosceva per nome tutte le stelle e gli bastava uno sguardo per sprofondare o innalzarsi nella poesia che probabilmente era la sua ragione di vita, la stessa che ha trasmesso a Boccaccio che ha vissuto come l’unica vera gioia della sua vita ed è divenuta motivo d’immensa gratitudine. Una gratitudine che forse è la forma più alta d’amore che fa girare il mondo nel verso giusto, quello bello che tutti vorremmo e che il Maestro ha elargito per ringraziare Dante con il suo film, il film.