Magari io e Zhang ci siamo incrociati nel 1989 in centro a Bologna. Mentre io iniziavo a fare la commessa, lui imparava la street – art! in ogni caso, ci siamo incontrati sabato, seppure metaforicamente, nella mia pausa pranzo. Infatti, eccomi a Palazzo Fava per scoprire la mostra ” META – MORPHOSIS  di Zhang Dali: 220 opere sparse tra dipinti, sculture, foto e installazioni.
Senza saperlo scopro che oltre al 1989, abbiamo qualcos’altro in comune visto che tutte le sue opere sono una riflessione sulla perdita della memoria.

Nell’atrio scorgo la prima opera e solo successivamente scopro che la firma di Zhang è AK-47 (sigla di un’arma) o K18 (sigla dell’oro) che sono i simboli della violenza e del potere economico.

Proseguo al primo piano dove le sale sono deserte e posso guardare, osservare e cercare in tutta tranquillità.
Mi piace essere sola come se le opere fossero lì tutte per me!  E pur non sapendo niente di questo Zhang, riesco a ricevere qualcosa.
Ascolto l’audio guida aggiungendo informazioni e interesse a quello che sto guardando anche se il bello dell’arte è una specie di dialogo muto dove le sensazioni scorrono libere, diverse a seconda dell’individuo e del momento.

Assaporo la mia curiosità che precede la visita ad ogni opera che è come una bolla trasparente da riempire di concetti e colore per poi farla volare libera. Osservando le creazioni di un’artista mi stupisce l’unicità di ognuno, la possibilità di raccontare qualcosa e spesso mi domando quali saranno stati i suoi percorsi.

Zhang, prima di decidere di colorare tutte quelle mani di rosso, quali e quanti ragionamenti avrà fatto? e quanto tempo avrà impiegato a scegliere la tonalità del colore? la dimensione dell’opera? il messaggio da trasmettere?

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Mi piacciono molto i profili di Zhang nei muri “Dialogue and Demolition” che fanno scorgere altri scenari. Come se la sua faccia facesse parte di quel paesaggio urbano, tra le mura decadenti e le costruzioni moderne. Crea dei varchi, porte che squarciano e irrompono tra il vecchio e il nuovo.

Una sua intervista riporta: “siamo assolutamente spietati a demolire la nostra cultura” a dimostrazione di ciò che rappresentano nella sua Pechino, le demolizioni dei quartieri tradizionali per fare spazio ai grattacieli.

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In un’altra sala visito “A Second History”, dove sono esposte tantissime foto: in alto ci sono quelle falsate e sotto quelle originali, a testimonianza dell’informazione distorta dei cinesi. Zhang ha trascorso sette anni di lavoro negli archivi, per accostare le immagini di propaganda (che erano molto in uso dal regime durante il governo di Mao Zedong) alle fotografie originali. Non solo foto di propaganda politica ma anche l’obbedienza ai requisiti estetici dell’epoca. Una sorta di “Photoshop” cinese.

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Proseguo la visita osservando “World’s Shadows“: una serie di disegni di ombre umane, animali e vegetali, catturate con la cianotipia, una tecnica antica di un’emulsione applicata su un tessuto di cotone o carta di riso ed esposta alla luce ultravioletta. Mi trasmettono un senso di calma come se stessi guardando un campo di grano.

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Procedo per osservare “One Hundred Chinese”, una serie di calchi di persone apparentemente ricche, stritolate dalla modernizzazione. Li guardo da vicino e fanno impressione, ancora di più illuminati sulla parete.

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Nell’ultima sala indietreggio, ritrovandomi dall’alto “Chinese Offspring”, tante sculture a testa in giù che rappresentano la precarietà della vita dei minigog (contadini emigrati nelle città) un popolo diventato l’ingranaggio senza controllo di una macchina.

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Infine mi accorgo che io e il tempo abbiamo viaggiato veloce ed è ora di uscire. Torno al lavoro sazia e soddisfatta.