Quando qualcuno viene a sapere che ho cantato nel Piccolo Coro dell’Antoniano, la reazione è spesso la stessa: testa inclinata da una parte seguita da un “ma dai”…
Lo stesso tipo di “ma dai” che si esprime ad un bambino di 5 anni che ti regala uno scarabocchio.
C’è un misto di ammirazione mescolato a presa in giro. Quasi tutti associano e sintetizzano il coro allo Zecchino che ne è solo una piccolissima parte. Purtroppo si sa che i media amplificano solo pezzi di verità e la televisione ha reso famoso questo coro grazie allo Zecchino.
A me questo fa un po’ rabbia perché tutto il nostro lavoro con Mariele viene banalizzato e dimenticato.
La più grande consolazione è quella di avere dentro di sè un piccolo angolo di memoria stipato di ricordi e d’insegnamenti che ogni tanto emergono.
Il rovescio della medaglia è che tutta questa disciplina mi ha lasciato strascichi di ipercritica nei confronti di qualsiasi esibizione infantile.
Non mi piace vedere trattare i bambini come stupidi o come miniature di adulti, concetto ereditato da Mariele.

Quindi, si deve sapere almeno una piccola parte delle nostre fatiche, dei nostri sacrifici, di tutto il nostro tempo dedicato al canto.

Innanzitutto la frequentazione della scuola era quotidiana ed esclusiva, nel senso che non potevi svolgere altro (attività sportive ecc,).

Ciclicamente ci veniva ripetuto che il canto era solo un gioco e che non avremmo dovuto ambire ad altro.
I genitori che facevano pressioni venivano immediatamente ridimensionati.
Il caso Cristina D’Avena, che agli occhi della gente appare come un fenomeno, non era altro che una
delle tante voci del coro. È stata solo nel posto giusto al momento giusto. E certamente aveva il giusto carisma.

Prima d’imparare le canzoni, dovevamo imparare tutti i testi a memoria, comprese le parti da solista in caso di sostituzione.
Per lo Zecchino il lavoro era di 12 canzoni tutte in una volta, con parti straniere.
Una volta studiate ci mettevano in gruppetti facendocele ripetere ad alta voce con divisione buoni e cattivi. I buoni ricevevano piccoli premi.

Lo studio di una canzone era un lavoro estenuante e noioso. Tante piccole frasi cantate, ripetute alla nausea. Le lezioni avevano poco del divertimento che si può pensare.

L’interpretazione faceva parte del lavoro ed era importante pensare a ciò che si stava cantando .

Il repertorio delle canzoni spaziava dalle canzonette orecchiabili a cori fino a 6 voci ( vedi: il cantico delle creature).

Le registrazioni in sala d’incisione duravano intere giornate, rinchiusi in uno stanzino e tabaccando la pipa del Maestro Martelli.

I viaggi erano praticamente tutti in pullman e quasi sempre dalla mattina alla sera. Spesso pranzo o cena al sacco.
Arrivati sul posto eseguivamo la prova sul palco e al di fuori dell’esibizione il tempo era quasi inesistente. Si riusciva a visitare qualcosa o comunque a diversificare la gita solo nel caso in cui la permanenza fosse più lunga.

Durante i concerti, i discorsi del carissimo Padre Berardo erano infiniti e pesanti come macigni.

Alcune manifestazioni ti entravano dritte nel cuore, com’è naturale che sia per la sensibilità dei bambini: gli ospedali e gli orfanotrofi.
Ricordo che mi sentivo in colpa a cantare col mio bel vestitino colorato a quei bambini sulla sedia a rotelle e sorridere era molto faticoso.

Le divise erano spesso scomode (soprattutto l’anno della giacca bianca…) e solo un anno fu una gran comodità indossare una tuta.

Questi ricordi sono solo la punta dell’iceberg di decenni di lavoro del coro più conosciuto in Italia.

A giugno, dopo 30 anni, abbiamo fatto un piccolo ritrovo di ex vecchioni del coro. Dopo cena ci siamo messi a cantare e le note e le parole sono uscite con la naturalezza di chi le ha impresse nel cervello e nel cuore.