Alle 21 eravamo seduti tutti e quattro in un piccolo ma delizioso teatro nel cuore di un paesino di Reggio Emilia. Sul palcoscenico qualche sedia e vari strumenti musicali, alcuni dei quali difficili da identificare: tubi, rulli e percussioni.

Come sfondo un’enorme telone e sul soffitto una quantità esagerata di fari e faretti ed impalcature.
Brusio, curiosità, attesa.
Finalmente si sono spente le luci e sono entrati in scena tre musicisti.
Nel silenzio perfetto si sono seduti sulle loro sedie in legno e dopo un lieve cenno con la testa hanno iniziato a creare la magia musicale.
Poi all’improvviso è apparso in scena il protagonista, Manuel Ferreira, con tutta la sua carica di energia.
Energia nel passo veloce, nei movimenti delle braccia, nel suono della voce, nei passi leggeri dei suoi piedi ballerini.

Seduto ad uno sgabello ha acceso la storia, narrando con parole ben scandite e colorate dal suo accento argentino. E così mi sono lasciata andare dalla mia poltroncina per entrare totalmente nella storia. Una storia vera fatta di tante persone, vite, intelligenze e cuori. Una storia raccolta direttamente sul posto con interviste, sguardi e abbracci. Loro, la compagnia Alma Rosè sono andati  in Argentina per scoprire la storia delle fabbriche recuperate. Prima ci ha raccontato con enfasi dell’Argentina sfavillante, quella patinata e godereccia e perfetta per i turisti dove puoi comprare con poco ogni cosa. Ma spostandosi in periferia ci ha fatto conoscere l’Argentina più vera, quella delle persone che vivevano nella mediocrità che si è trasformata in povertà dopo aver perso il lavoro.

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Tante fabbriche che sono fallite e rimaste abbandonate con tanti macchinari dentro. Poi qualcuno di più coraggioso, ha pensato di restarci in quelle fabbriche e di convincere anche i propri compagni di sventura a sfidare la resa. Così pian piano il coraggio è diventato contagioso e molti lavoranti hanno occupato queste fabbriche, hanno preteso un lavoro e le hanno rimesse in funzione. Ognuno di loro ne conosceva un pezzettino, quel tanto che bastava per unirlo a quello del compagno, fino a fare funzionare tutti i macchinari ma stavolta con un qualcosa in più: la condivisione. Molti operai nemmeno si conoscevano prima di questo cambiamento ed ora condividevano soddisfazioni, fatiche e magari anche l’asilo dei figli che era stato inserito all’interno della fabbrica. E la creatività ha preso il sopravvento grazie alle radio, i centri culturali anch’essi insediati e alle musiche ascoltate durante il lavoro. Poi ci sono state delle testimonianze di queste persone, alcune delle quali strazianti ma necessarie per capire fino in fondo il dolore sopportato. Inevitabilmente mi sono riempita di singhiozzi mentre ascoltavo la storia di una madre che perdeva la figlia mentre i miei di figli mi guardavano nel buio ed io guardavo loro…

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Intanto Zucchetto tempestava di domande Zucco, curioso e confuso.
Zucchetta attenta ed immobile per tutto lo spettacolo.
Ma tutte queste storie hanno riassunto una sola parola che è la dignità che ogni uomo perde quando non ha più un lavoro. Sconvolgente la dichiarazione: “sono un uomo e devo farcela“…per la  dignità, la moglie, i figli, per la loro serenità fatta di vita semplice…

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Mi è tornata in mente quella fabbrica nel mio paese che tante volte ho trasformato con i sogni in un centro culturale e musicale per ragazzi…
Ed è stato bello immaginarsi di poter esportare anche qui una trovata così geniale, un piccolo seme che magari qualcuno farà fiorire!
E finché esisteranno persone e luoghi che sostengono questi spettacoli allora il sogno potrà anche diventare realtà…