Quest’estate, tra le bancarelle del mare, ho fatto una scoperta che mi ha lasciata perplessa. Tra conchiglie, braccialetti e cianfrusaglie spuntavano dei pupazzetti colorati, dalle forme buffe e tenere, almeno all’apparenza. Ma appena li ho guardati da vicino, qualcosa non tornava: le espressioni erano malvagie, i denti aguzzi, lo sguardo da film horror. Avrebbero potuto essere adorabili, se non fosse stato per quell’aria disturbante, inquietante, fuori luogo.
La prima domanda che mi sono posta è stata: “Ma sono per bambini?” Poi, vista la quantità e la varietà con cui venivano venduti, la risposta è diventata evidente: sono per tutti.

Generalmente la mia indole infantile mi fa provare tenerezza per i giochi infatti spesso curioso dai bazar ai mercatini ma davanti a questi pupazzi, chiamati Labubu, con i loro colori pastello e il ghigno da diavoletti, ho provato un disagio profondo.
Certo, i personaggi cattivi sono sempre esistiti. Nelle fiabe, nei cartoni, nei giocattoli. Ma non erano mai da soli: accanto a loro c’erano sempre gli eroi, le fate, i buoni, i punti di riferimento positivi.
Qui, invece, sembra che il cattivo sia diventato protagonista. E non solo: è anche affascinante, divertente, desiderabile. Venduto in tutte le salse, in mille colori, con l’effetto sorpresa: paghi, ma non sai quale mostro compri, così magari insisti e compri altri, fino a trovare quello “giusto”.
Mi chiedo: cosa sta succedendo?
Forse, questa tendenza è figlia di quel movimento, in parte nobile, in parte degenerato, che vuole includere tutto e tutti? Anche il lato oscuro, anche il diverso, anche l’inquietante.
Un tempo, il male aveva un posto ben preciso nei racconti: serviva a mettere alla prova il bene. Oggi, è il male stesso a essere promosso come interessante, simpatico, alternativo, stiloso.
Sarà anche una mia proiezione, lo ammetto. Forse altri si sono avvicinati a questi personaggi per moda, per imitazione, per l’effetto gregge: se tutti lo vogliono, se lo vedo sulle borse, sulle felpe, sui social… perché non dovrei volerlo anch’io?
Ma ciò che mi turba di più non è il marketing. È il pensiero di un bambino che cresce in un mondo dove tutti i pupazzi hanno la faccia cattiva.
Non sarebbe ora di fare una nuova rivoluzione del bene?
Come si spiega a un bambino che quei denti aguzzi non sono un pericolo? Che quel ghigno minaccioso è “solo un gioco”?
Sicuramente, da adulti, possiamo lavorare di fantasia, reinterpretare, sdrammatizzare e inventare risvolti psicologici.
Ma la vera domanda è: perché dobbiamo continuamente giustificare il brutto, l’aggressivo, il disturbante?
Forse, proprio perché siamo ossessionati dall’inclusione, stiamo perdendo il senso del limite.
Non tutto va incluso. Non tutto va normalizzato. Non tutto ciò che è “alternativo” merita uno spazio nel cuore di un bambino.
Mi piacerebbe, allora, proporre una rivoluzione diversa: una rivoluzione che non esalti l’eccezionale, il mostruoso, il deviante, ma che riabiliti il normale.
Che dia voce al bene, al semplice, all’umano autentico.
Che dica ai bambini:
“Puoi essere diverso, sì, ma puoi anche essere normale. E va bene così.”
Perché includere tutto, senza buonsenso, rischia di escludere chi non vuole trasgredire.
E oggi, forse, il gesto più radicale è essere buoni, essere medi, essere umani — senza vergognarsene.
Perché se il male diventa bello, e l’errore diventa stile, rischiamo di perdere il desiderio del bene non perché non lo vogliamo, ma perché non lo riconosciamo più.


Post da applausi, soprattutto nella parte finale.