Lunedì, suona la sveglia.
Quanti di voi si alzano con la grinta per una nuova giornata? Quanti, onestamente hanno voglia di andare a lavorare? Quanti si sentono rappresentati e appagati dalla loro quotidianità lavorativa? In realtà credo che la maggiorparte delle persone si ritrovi incastrata in un ruolo che non gli corrisponda. Spesso anche chi ha studiato con impegno e si é formato in un campo specifico, finisce per fare tutt’altro. Per necessità, per caso, per mancanza di alternative. Il lavoro, quello che dovrebbe essere uno strumento di realizzazione personale, spesso diventa un compromesso. O un peso.
Eppure, continuiamo a viverlo come centro della nostra identità. “Che lavoro fai?” è la prima domanda che generalmente si fa a uno sconosciuto, quasi fosse la chiave per definirlo. Ma è davvero questa la priorità della nostra vita? Magari potrebbe esserlo per chi é riuscito a combinare il lavoro con le proprie doti e passioni (quanto li invidio) ma qualcuno inizia a vederlo con occhi diversi. Non sempre come qualcosa da inseguire a ogni costo, ma come una parte non totalizzante dell’esistenza.
E ancora di più lo fanno i giovani.
Già, i giovani. Quelli tanto criticati perché “non hanno voglia di lavorare”, “non si sacrificano”, “non hanno ambizione”. Ma forse il punto è un altro. Forse, semplicemente, non mettono più il lavoro al centro della vita. Non ne fanno più un totem intoccabile. Cercano invece equilibrio, tempo, benessere mentale, qualità della vita. Non vogliono lavorare per vivere, né vivere per lavorare. Vogliono vivere e basta.
È un cambio di modello profondo che fa paura a molti ma che forse ci dice qualcosa d’mportante: che è arrivato il momento di rivedere il modo in cui pensiamo al lavoro.Di rimettere in discussione alcune fondamenta. Il lavoro è ancora il primo valore? O dovrebbe diventare uno strumento al servizio della realizzazione umana, non il fine? Forse è una riflessione necessaria. Perché il mondo del lavoro è cambiato, le persone sono cambiate. E se vogliamo vivere meglio dobbiamo iniziare a chiederci se davvero il lavoro debba essere sempre la misura di tutto. O se non sia giunto il tempo di restituirgli il suo posto: non sopra di noi, ma al nostro servizio.
Il concetto di “successo” si è spostato: non è più la carriera, ma la qualità della vita.
E in tutto questo, non possiamo dimenticare un elemento spesso sottovalutato: l’ambiente in cui si lavora.
Perché non è solo cosa facciamo, ma dove e con chi lo facciamo, a fare la differenza. Un contesto sano, rispettoso, stimolante può trasformare anche un compito ordinario in un’esperienza positiva. Al contrario, un ambiente tossico, giudicante o monotono può svuotare di senso anche il lavoro più interessante.
Il benessere lavorativo non dipende solo dal ruolo, dal contratto o dallo stipendio: dipende anche dalle relazioni, dai valori condivisi, dalla possibilità di sentirsi ascoltati, supportati, riconosciuti.
Forse è da qui che dovremmo ripartire: da un nuovo modo di pensare il lavoro.
Non come un obbligo da sopportare, ma come una parte della vita che, se ben costruita, può contribuire, insieme a tutto il resto, alla nostra FELICITÀ.

