Era da un po’ di tempo che la cantattrice Roberta Giallo aveva in mente di coinvolgermi come comparsa in uno dei suoi video, probabilmente perché le era rimbalzato il mio divertimento nell’esperienza precedente, quando avevamo girato Voce al bene nell’aprile del 2024. Poi era arrivato il messaggio di conferma e il personaggio che mi era stato assegnato. Così era iniziata la prima parte creativa: scegliere come vestirmi e come rendere credibile il mio personaggio.

Una bambina capricciosa non poteva che avere non uno, ma due giocattoli da portare con sé e da non voler prestare: erano così entrati in scena il mio Rocco Scirocco, peluche originale della mia infanzia, e Cicciobello Angelo Negro, comprato mesi prima in un banchetto con enorme entusiasmo. Però il suo vestitino era slabrato e tristolino, così gli avevo trovato un costume da indossare per l’occasione: azzurro brillante, con le orecchie da Orko. Perfetto! anche questa volta il vaso con la polvere dorata sarebbe potuto servire, così l’ho annesso agli oggetti di scena.

Per me avevo trovato in uno dei miei cassetti una t-shirt che, quando l’avevo comprata, mia figlia mi aveva guardato strano: tutta colorata, con grandi disegni infantili; un paio di pantaloni fucsia e scarpe sportive rosine. Ultimo tocco: i capelli, raccolti in un paio di trecce che il mattino delle riprese il parrucchiere mi aveva fatto prima di andare al lavoro.

Al pomeriggio avevo raggiunto il museo della musica con un’ebbrezza meravigliosa per la parentesi di divertimento che mi aspettava. Nella sala avevo riconosciuto qualcuno, conosciuto altri, ed era stato incredibile come i ruoli fossero stati presi seriamente da ognuno. Roberta aveva in mente ogni passaggio della storia e spiegava a ognuno cosa interpretare, mentre il come era libero: ed era stata questa la vera parte creativa e strabiliante, perché erano saltati fuori momenti e gesti inaspettati.

L’Orko era suggestivo soprattutto dopo aver indossato orecchie, naso e unghie posticce che Roberta aveva tirato fuori da uno dei suoi sacchettini misteriosi.

Per non parlare della sua recitazione sul finale, mentre singhiozzava disperato tra le braccia del dottore. C’erano vari ruoli: l’inserviente dai capelli lunghissimi, l’insegnante di yoga, il dottore, l’uomo in maschera, il cavaliere con la spada e l’eterea pianista, bellissima e abilissima mentre animava il piano; Tutti, pur non c’entrando nulla l’uno con l’altro, avevano centrato tutto in un gioco collettivo.

Roberta sembrava una bambola di porcellana, e le sue parrucche sempre diverse la incorniciavano, mentre le zeppe sdrammatizzavano la figura da fatina. Avevamo girato le varie scene singole, seguendo silenziosi i neo-attori nelle sale dello splendido museo e mi aveva impressionato ripensare a quando ci ero andata per la prima volta in visita con i miei figli piccolini.

Quando era stato il mio momento, avevo tirato fuori tutta la mia grinta capricciosa e non mi ero vergognata minimamente: anzi, mi ero sentita proprio a mio agio, probabilmente perché avevo potuto recitare un ruolo che mi piaceva e non quello quotidiano, che mi stava sempre più stretto.

E alla fine sono arrivata alla conclusione che lo stile di Roberta è riconoscibile, forte, senza regole né forzature, e con la gioia che la contraddistingue in tutto ciò che fa. Frequentarla fa bene, perché ricorda con quale spirito si può vivere. Ironia della sorte, al collo indossava proprio la chiave per fuggire dalla prigione dell’Orko, che simbolicamente è la trappola da cui tutti sappiamo che dovremmo fuggire e che lei, col suo esempio, sa insegnare come.

Ogni nota della canzone di ROBERTA GIALLO, “Orko Ingordo”, può diventare il riflesso di chi l’ascolta, creando nuove storie e piccoli respiri di libertà.
E questa é la mia.

ORKO INGORDO (La trovatella capricciosa)
C’era una volta, nel cuore antico del Museo della Musica di Bologna, una trovatella capricciosa che non conosceva il mondo oltre quelle stanze. Le sale erano silenziose, ma ogni oggetto sembrava trattenere un suono che non voleva morire: il sussurro dei violini, l’eco di un canto dimenticato, il battito lieve del tempo che non passa.
Quel museo era la sua casa e la sua prigione, un luogo fatto di note sospese e di memorie che si ripetevano come un disco che non riesce a fermarsi.
Con lei vivevano altri personaggi imprigionati, anime sonore intrappolate da un Orko alto e spaventoso, guardiano della routine e del silenzio. Nessuno ricordava più come fosse fatto il cielo fuori da quelle finestre.
La trovatella portava sempre con sé due compagni: Angelo negro e Rocco. Li cullava con dolcezza e poi, all’improvviso, li gettava a terra con rabbia. Li amava e li odiava, come si ama e si odia ciò che ci ricorda chi siamo stati. Erano i simboli della sua infanzia felice, di un tempo in cui tutto era semplice e vivo, ma anche il peso di una felicità che non voleva lasciarla andare.
Così la trovatella oscillava come un pendolo, tra il bisogno di abbracciare il passato e il terrore di perderlo per sempre.
Poi un giorno, tra le ombre dei corridoi, emerse Roberta, la più coraggiosa tra tutti.
Aveva compreso che l’Orko non era solo un carceriere, ma il riflesso di qualcosa di più profondo:
la paura di cambiare, la paura di osare, la paura di essere liberi davvero.
Mentre gli altri tremavano, Roberta preparò in segreto una pozione magica, un elisir che avrebbe fatto addormentare l’Orko ingordo, ingordo di abitudini, di regole, di giorni tutti uguali.
Quando l’Orko cadde in un sonno profondo, Roberta gli rubò la chiave e liberò tutti.
Le porte del museo si spalancarono, e un vento nuovo riempì le sale, come una melodia mai suonata prima.
La trovatella allora si voltò indietro: vide Angelo negro e Rocco distesi a terra, e per la prima volta non pianse. Li salutò con un sorriso lieve, come chi ringrazia il passato prima di andare incontro alla vita.
E così uscirono tutti, passo dopo passo, verso la libertà che fa paura ma che fa respirare.
Perché a volte, l’Orko che ci tiene prigionieri non vive fuori da noi, ma dentro.
E solo chi osa guardarlo negli occhi può trasformare la paura in canto.