Il viaggio di Domenico Iannacone (giornalista e regista) inizia da bambino quando dal suo Zingarelli consunto cerca spasmodicamente il significato di parole sempre nuove. Per gioco ne memorizza due o tre al giorno facendole sue e sforzandosi di usarle. Più parole, più pensieri, più pensieri, più domande, più domande, più azioni. Azioni che diventano storie in cui Domenico entra attraverso la vita degli altri per raccontarcele dal “non luogo” televisivo. Storie crude, storie calde che odorano di solitudine, di disperazione, di sangue, d’arte, di luce e buio.
Dalla scatola della televisione Domenico arriva ai teatri con Che ci faccio qui – in scena, per raccontarle più da vicino, prendendo per mano le persone, una ad una, con delicatezza. Accompagna il pubblico dove non sarebbe mai andato per timore, per diffidenza, per tenere alto il proprio muro con cui sentirsi protetto. Ma protetto da cosa se si è ridotto ad avere una dannata paura di guardare gli occhi delle persone? Quando è stata l’ultima volta che è successo?
Che ci faccio qui è una domanda che Domenico si è fatto tante volte sentendosi perennemente in bilico e che sorge spontanea accompagnandolo nei luoghi dell’animo umano, traendone dalle fragilità una bellezza disarmante. Porta con sé i racconti di tante storie: una donna che cura i piedi dei migranti, un collezionista che lascia ai posteri oggetti di ogni tipo murandoli intatti, un uomo separato che vive in macchina, una donna disperata a cui hanno portato via la figlia e ancora un disabile che si occupa della madre malata…Ma com’è possibile cospargere di poesia queste storie apparentemente così piccole? Osservandole da vicino, talmente vicino da entrare nella pupilla dell’altro e rispecchiarsi nella sua storia, quella che potrebbe capitare a chiunque. E quanto è facile addormentare la coscienza con un giudizio che alza il muro, aumenta la distanza dall’altro, da chi diventa sempre più solo.
Domenico ci porta dov’è necessario andare per capire come stiamo diventando senza rendercene conto mentre oltrepassiamo il limite dell’umanità e dello sfruttamento della terra, mostrandoci luoghi fatiscenti e contaminati. Quelli della terra e dell’anima.
Che ci faccio qui è la domanda che ronza in testa, che scuote la coscienza, che pone una domanda al significato della propria esistenza.


